Come un sassolino in un ingranaggio. Molto piccolo, ma in grado di fermarne il funzionamento. Si può semplificare così la crisi di produzione dei microchip, che gli anglosassoni hanno battezzato chip crunch. L’indisponibilità di questi componenti sta creando enormi problemi a moltissime industries. Il perché è presto detto. I microprocessori sono presenti nella maggior parte dei prodotti che ci circondando: computer e smartphone, TV, automobili, dispositivi medicali, elettrodomestici, macchine utilizzate nelle industrie e via discorrendo.
La penuria di questo componente è dovuta, come spesso accade quando si tratta di crisi globali, a una serie di cause concatenate. Vediamo, in breve, alcuni di quelle più rilevanti.
Primo, il lockdown legato alla diffusione del Covid-19. In questo caso si è trattato di una grave miopia dei produttori dei microchip che hanno rallentato la produzione credendo che il fermo di molte attività determinasse una minore richiesta di questo componente. In realtà, è avvenuto esattamente l’opposto. La gente rinchiusa in casa ha fatto balzare verso l’alto la richiesta di dispositivi elettronici per lavorare in ottica smart home, per gestire la didattica a distanza o, semplicemente, per intrattenimento. Il famoso incrocio tra la curva della domanda e dell’offerta si è posizionata nel quadrante “scarsità di prodotto/prezzi elevatissimi”.
Secondo, la mancanza delle materie prime. Ad aggravare ulteriormente la questione ci si è messa la scarsa disponibilità delle materie prime necessarie per la produzione di microchip che, peraltro, hanno cicli di produzione molto lunghi, fino a 26 settimane. Questo aspetto si lega strettamente al punto successivo.
Terzo, la concentrazione dei giacimenti di terre rare e dei plant produttivi. Le cosiddette terre rare – rare earth elements (REE) – sono un gruppo di 17 elementi non presenti puri in natura, ma legati a circa 200 tipi di minerali. Si tratta di metalli superconduttori, dunque preziosi per la produzione di microchip.
La maggior parte dei giacimenti di terre rare si trovano in Cina, che possiede circa un terzo delle riserve mondiali, seguita da Vietnam e Brasile, Russia, India, Australia, Groenlandia e Stati Uniti. Al momento, la Cina è l’indiscusso leader del settore, del quale controlla circa il 90% della produzione mondiale. Il perché è spiegato, oltre che dalle riserve presenti nel Paese, anche dal fatto che il gigante asiatico è disposto a pagare l’alto costo ambientale legato alla produzione di questi metalli. La separazione dei 17 elementi dai minerali prevede, infatti, l’utilizzo di acidi e solventi dannosi per l’ambiente oltre che un’alta emissione CO2 in atmosfera.
Oltre ai giacimenti di terre rare, anche la produzione dei microchip è concentrata nel Far East. Tra le prime cinque realtà globali che producono microchip, quattro si trovano in Asia: due a Taiwan, una in Cina e una in Corea. L’unica al di fuori di questa lista si trova negli Stati Uniti.
Non è un caso che sia gli stessi Stati Uniti che l’Europa si stiano muovendo per tentare di riequilibrare questa situazione di profonda dipendenza. L’amministrazione Biden ha recentemente firmato un ordine esecutivo per rivedere la catena di approvvigionamento dei semiconduttori. Inoltre, un disegno di legge, chiamato Chips for America Act, punta a finanziare la ricerca nel campo dello sviluppo di chip e semiconduttori.
Anche il Vecchio Continente sta cercando di attrezzarsi. Attraverso il piano “2030 Digital Compass”, si indica un obiettivo ben preciso: raggiungere un target del 20% nella produzione mondiale di semiconduttori (attualmente l’Europa è ferma al 10%).
Quarto, la logistica in sofferenza. È evidente che in un quadro pandemico, ai punti sopra citati, si è unita una enorme difficoltà della logistica a veicolare i pochi microchip prodotti. L’efficientamento delle catene di fornitura – che hanno ridotto piattaforme, vettori e risorse al minimo necessario – si è tradotto nell’impossibilità di essere reattive, caratteristica essenziale per rispondere a variazione così repentine nella domanda.
Considerando la complessità della crisi in atto, non sarà semplice, né rapido, uscirne. Ciò che è certo è che la posta in gioco, tra cui la capacità competitiva del nostro tessuto imprenditoriale, è troppo alta per non indirizzare il massimo sforzo, politico ed economico, per determinare un riequilibrio nei rapporti di forza in un settore strategico come quello dei microchip e dei semiconduttori.