Eravamo impreparati. Ammettiamolo, sul piano della formazione (e didattica) a distanza l’Italia pagava un gap strutturale pauroso rispetto al resto d’Europa. Questo si è tradotto in un drammatico ritardo sul piano scolastico, ma anche nella formazione professionale.
Tra meeting telematici, nuove applicazioni e il vecchio amico Skype, le aziende hanno dovuto stravolgere la fattispecie relazionale. Basti pensare che Zoom, piattaforma di videoconferenza, ha registrato 2,13 milioni di download solo in data 23 marzo: il dato conferma quanto il sistema Paese abbia dovuto adattarsi rapidamente al corso degli eventi, generando una improvvisa impennata della digitalizzazione. Altra faccia della medaglia, però, risulta l’arretratezza del tessuto aziendale rispetto allo svolgimento dell’attività in modalità smart working, da qui la frenetica corsa ai ripari.
Chi, come Bancolini, faceva e fa della consulenza e del servizio di formazione un asset fondamentale del proprio business ha reagito quanto più proattivamente possibile: la trasmissione della conoscenza, così, ha dovuto assumere quasi forma di e-commerce.
Gli impatti coinvolgono evidentemente anche le modalità di trasmissione dei messaggi e delle informazioni. Non potendo più contare sulla prossemica e la frontalità, la formazione deve essere riprogettata ex-novo e non semplicemente “trasposta” dal fisico al digitale. Tempi più contenuti, ordini del giorno rigorosi, essenzialità nella esposizione, programmi pensati appositamente per una fruizione telematica. La risorsa attenzione è difficile da guadagnarsi dietro uno schermo.
Questo cambiamento, però, ha generato una serie di problematiche che hanno aperto vecchie ferite del Paese. L’obsolescenza dei dispositivi, la scadente connessione e l’impreparazione digitale hanno reso un’ampia fetta di lavoratori simili ad elefanti in stanze da 5 metri per 5. Impacciati, in ritardo e con video sgranati. Seguire un webinar, una riunione o un corso di aggiornamento è divenuto per molti una croce da portare sulle proprie spalle.
Il processo di sviluppo tecnologico, con conseguente formazione a distanza o smart working, era intrapreso almeno da un decennio in Germania, Gran Bretagna e Francia, per non parlare nei Paesi del Nord Europa. L’Italia, dunque, ha dovuto correre contro il tempo incorrendo in evidenti ritardi.
Quanto è digitalizzato il nostro Paese?
Nel 2008 lo Stivale contava 1 milione di utenti iscritti a Facebook. Nel 2009 si è arrivati 20 milioni. A quel tempo molti esperti considerarono la cosa come una radicale inversione di tendenza, un primo passo verso una nuova era. Nel 2019 il Digital economy and society index (Desi), un indice che misura i livelli complessivi di digitalizzazione dei paesi dell’Unione europea, poneva l’Italia al 24° posto tra i 28 stati dell’Unione.
I dati del passato ci raccontano dunque della possibilità che la corsa contro il tempo per il Coronavirus si possa anche non tradurre in una maggior digitalizzazione per il Bel Paese. Ma come sempre, a problema corrisponde opportunità. Alcuni segnali incoraggianti si vedono, si tratta di consolidarli e farli penetrare in modo pervasivo nel tessuto produttivo italiano. Il WiFi 6E, l’ultima frontiera della banda larga che supporta frequenze a 6GHz, rientra proprio tra gli step più rilevanti nel percorso di sviluppo digitale. D’altronde la digitalizzazione senza velocità è nulla.