Viviamo nell’epoca del paradosso in cui i ricercatori, formati nelle università italiane, ottengono brillanti successi nei centri di ricerca di altri Paesi. Spesso si tratta di una scelta obbligata, per la capacità di altre nazioni di allocare più risorse e offrire percorsi di carriera più trasparenti e veloci, basati su criteri meritocratici.
Lo stesso premier Draghi ha fatto cenno a questa situazione problematica nel suo discorso di insediamento, indicando nell’incremento degli investimenti in ricerca uno dei fattori critici di un’auspicabile ripresa nel medio-periodo.
Come misurato dal centro di analisi indipendente Observa, a livello europeo la media degli investimenti in ricerca si attesta attorno al 2%, la media Ocse è del 2,4%, con Paesi come Germania, Danimarca e Austria che raddoppiano lo stanziamento registrando un consistente 4%.
In questo quadro il nostro 1,4% non fa onore ad una lunga storia di successi e di riconoscimenti internazionali per quanto riguarda creatività, innovazione e visione.
Dopo avere vissuto di rendita, trainati dalla reputazione del Made in Italy, oggi emergono tutte le fragilità di un sistema non adeguatamente supportato per decenni, mettendo in evidenza l’urgente necessità di correre ai ripari in modo deciso e preciso.
Nel confronto internazionale anche il personale impiegato in Italia nel settore ricerca e sviluppo risulta poi distribuito in modo poco equilibrato tra pubblico e privato. Da noi infatti prevale la dimensione pubblica, e la maggior parte dei nostri ricercatori lavora soprattutto negli atenei universitari, mentre la media Ocse registra i due terzi dei ricercatori in ambito privato, con Svezia, Giappone e Corea che si attestano addirittura intorno all’80% di risorse umane allocate in attività produttive private.
Tra queste risorse le ricercatrici e i ricercatori italiani sono moltissimi, e hanno fornito un contributo sostanziale a diverse realtà europee nel ricevere il sostegno del programma di finanziamenti Horizon 2020 ma, nella classifica degli importi ricevuti e di progetti ammessi, il nostro Paese risulta solo al quinto posto nel Vecchio Continente, dietro a Germania, Regno Unito, Francia e Spagna.
Tornando a Draghi la nuova denominazione di alcuni Ministeri per favorire un approccio interdisciplinare a temi scottanti che riguardano il futuro e le prossime generazioni è senz’altro un segnale positivo: ambiente, mobilità sostenibile, infrastrutture, innovazione tecnologica, transizione ecologica e digitale, sono appunto i settori dove la ricerca e la stretta relazione tra pubblico e privato hanno un ruolo fondamentale, con sensibili ricadute sull’economia nazionale nel suo complesso.
Se a questo approccio saremo in grado di abbinare investimenti su strutture più vicine ai ricercatori, alle start-up e agli incubatori, in grado di fornire consulenza e supporto nel confezionamento dei progetti, potremo dire di avere fatto qualcosa di concreto.
Molte energie dovrebbero poi essere indirizzate a stimolare le imprese a collaborare su piccoli e grandi progetti in grado di fare crescere la nostra Industria 4.0, per offrire al mercato prodotti e servizi innovativi e per essere protagonisti del rilancio della nostra economia in linea con gli obiettivi UE 2030 in termini di sostenibilità.