I nuovi modelli di sviluppo fanno sempre riferimento ad improcrastinabili esigenze di sostenibilità, ma è opportuno ricordare che si tratta di un concetto estremamente delicato per i suoi diversi ambiti di applicazione.
Innanzitutto c’è quello ambientale, cioè quello che in modo più “naturale” viene abbinato alla sostenibilità, anche perché appena ce ne dimentichiamo ecco che arrivano cambiamenti climatici, risorse che si esauriscono, carestie, pandemie e fenomeni vari, con un impatto sulle comunità decisamente più grave e profondo rispetto al passato. Inequivocabili segnali che è ora di intervenire in modo radicale negli stili di vita e nei modelli di produzione, consumo e smaltimento, privilegiando una dimensione circolare dell’economia.
Trasformare gli investimenti in ricerca e sviluppo in vantaggi economici sul breve-medio periodo è un obiettivo importante, che necessariamente implica uno sguardo attento a tutte le modalità di riduzione di sprechi e consumi, sinergie con i centri di formazione, incentivi che possano favorire il lavoro di start up e la condivisione di conoscenze per valorizzare le vere attività sostenibili smascherando il green washing . Per essere sostenibile ogni investimento in questo ambito dovrebbe portare un ricavo e un guadagno misurabile, altrimenti non è possibile parlare di sostenibilità per un’attività che intende essere “produttiva”.
Last but not least la sostenibilità deve coinvolgere anche il tema lavoro con il conseguente impatto sociale, quindi contribuire allo sviluppo democratico dei territori riducendo il gap tra ricchezza e povertà, dando alle persone opportunità di crescita e di accesso ai servizi essenziali.
Per molti analisti la via della digitalizzazione è quella in grado di fornire un potenziale e concreto contributo alla sostenibilità, un po’ ad evidenziare un legame del tipo win-win: “più innovazione uguale più sostenibilità”. In realtà la relazione di causa-effetto potrebbe anche essere rovesciata, poiché è l’innovazione ad avere più bisogno oggi della sostenibilità, dei suoi valori e delle sue metodologie, per ottenere gli effetti più significativi sia sull’ambiente sia sullo sviluppo economico e sociale.
Anche perché la forte spinta a traslare online attività che fino a qualche tempo fa venivano realizzate in modo diverso, ha certamente portato un miglioramento misurabile per quanto riguarda la gestione del tempo, la riduzione delle trasferte, l’ottimizzazione di molti processi, ma il tema dell’impatto ambientale e della produzione di CO2 non è ancora stato risolto.
Secondo di dati del think tank francese The Shift Project 2019 il contributo alle emissioni globali di anidride carbonica da parte del settore ICT è in impennata: cresciuto dal 2% del 2008 al 3.7% del 2020, con previsioni di incremento che vedono un 8.5% nel 2025 e addirittura un 14% nel 2040.
Se il settore ICT fosse uno Stato sarebbe al quinto posto nella classifica dei Paesi che più impattano sull’ambiente per i milioni di tonnellate di CO2 prodotti ogni anno, dopo la Cina, USA, India, Russia e appena prima del Giappone.
Il consumo di energia elettrica misurato dai nostri contatori infatti non tiene conto dell’enorme impatto globale del cloud, con tutta la sua struttura fisica fatta di satelliti, cavi in fibra ottica, router, cavi sottomarini e centri di calcolo che, oltre ad essere prodotti e installati, devono essere raffreddati, illuminati e protetti in potenti data center dislocati spesso anche in zone del mondo dove l’energia viene prodotta con il carbone.
Se è vero che l’efficienza energetica dei device e delle infrastrutture digitali è in continuo miglioramento c’è però la necessità di cambiarli spesso per poter sfruttare applicazioni sempre nuove. Sempre secondo il report The Shift Project 2019 è stato calcolato che produrre un grammo di smartphone (2 anni di vita media) richiede un consumo di energia 80 volte superiore a quello che serve per produrre un grammo di auto a benzina (!), con un incremento di consumi anche in fase di smaltimento per la necessità di recuperare metalli e minerali rari.
Senza poi contare l’aspetto sociale legato alle condizioni di lavoro nei grandi centri di produzione tecnologica e nei luoghi di estrazione delle materie prime.
Questo per dire che se non verranno sempre più applicate le logiche della sostenibilità anche all’ambito dell’innovazione tecnologica, gli apparenti vantaggi che abbiamo misurato in tempo di pandemia riducendo le trasferte e spostando online molte delle attività quotidiane che prima venivano svolte recandosi a scuola, in ufficio, nei locali pubblici e nei luoghi di aggregazione, ecco che non avremo risolto il problema.
La CO2 che avremo risparmiato riducendo i nostri spostamenti in auto nel traffico di città congestionate, o diminuendo i voli intercontinentali, la andremo a riprodurre aumentando i consumi domestici, lo streaming video ad alta risoluzione, acquistando nuovi device sempre più sofisticati, accumulando usato da smaltire e così via.
L’energia elettrica può essere prodotta anche da fonti rinnovabili e non necessariamente da combustibili fossili, tuttavia una ricerca di Greenpeace ha rilevato nel 2017che Apple dichiarava di usare l’ 83% di energia pulita, Facebook era al 67%, Google al 56%, Microsoft al 32% e Oracle solo l’8%, con Amazon e Netflix non pervenute e che dichiaravano solo le attività di compensazione attraverso la piantumazione di alberi.
Probabilmente questi numeri sono nel frattempo migliorati ma sono anche aumentate le connessioni machine to machine e di questo passo, secondo il report annuale di Cisco, l’M2M passerà da 1.2 miliardi di connessioni del 2018 a 4.4 miliardi nel 2023, con una crescita annua costante del 10% del numero di dispositivi connessi, ben superiore al 6% di crescita degli utenti internet.
Il nostro orizzonte è fatto sempre più di Smart City, di Internet of things e di smart-working, dove cittadini sempre più consapevoli avranno però sempre più bisogno di centri di calcolo, di connessioni veloci e di nuovi device che andranno smaltiti.
Una matura consapevolezza delle esigenze in termini di sostenibilità, anche e soprattutto in ambito digitale è, a questo punto, il fattore in grado di determinare la differenza tra i veri protagonisti dell’innovazione e chi cavalca l’onda; tra chi ragiona su prospettive a medio-lungo termine – pensando al business ma inserito in un contesto di vita sostenibile – e chi invece pensa al “mordi e fuggi” senza prospettive.