Dopo il greenwashing, vale a dire la strategia di comunicazione di certe imprese o istituzioni politiche, finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva dal punto di vista dell’impatto ambientale, in questo momento potremmo anche avanzare l’ipotesi che, per descrivere la transizione digitale delle imprese, si possa utilizzare il termine digitalwashing. Con questa parola intendiamo la propensione delle organizzazioni a credere che la recente spinta alla digitalizzazione sia, di per sé, una strategia in grado di migliorare le performance in fatto di sostenibilità.
Per molti esperti la via della digitalizzazione è quella in grado di fornire un potenziale e concreto contributo alla sostenibilità, creando così una relazione reciprocamente vantaggiosa, secondo la logica ‘’se c’è più innovazione allora c’è anche più sostenibilità”.
Ma è del tutto vero? Il digitale è davvero più green?
Si direbbe di no, considerando però che tutto l’hardware IT, le reti e i sistemi di comunicazione, i software di elaborazione dati e il cloud, a loro volta sviluppano un nuovo impatto ambientale che va misurato e ridotto.
Secondo i dati del think tank francese The Shift Project 2019 il contributo alle emissioni globali di anidride carbonica da parte del settore ICT è in aumento, dal 2% del 2008 è cresciuto al 3.7% del 2020, con previsioni di incremento che vedono un 8.5% nel 2025.
Una società e un’economia che si fondano sui dati, hanno nei datacenter i propri centri nevralgici. Questi sistemi tecnologici complessi, tuttavia, sono energivori.
Inoltre, sta crescendo il numero di edge datacenter per assecondare la fruizione di app e servizi dai device mobili e ciò rende urgente la necessità di adottare misure di efficienza energetica. Tra circa 20 anni, il consumo di energia da parte degli edge data center supererà infatti 3K TWh, pari al consumo di quasi 275 milioni di famiglie. È fondamentale progettare centri dati efficienti dal punto di vista energetico e delle risorse.
Schneider Electric, il gruppo industriale francese, che produce e propone soluzioni per la gestione elettrica e sistemi automatici, ha condotto uno studio secondo il quale entro i prossimi 4-5 anni saranno installati 7,5 milioni di nuovi micro data center con una potenza di 120 GW. Portare queste installazioni a una condizione di alta efficienza significherebbe portare la spesa per il consumo energetico annuale da 109 a 92 miliardi di dollari, con un impatto che passerebbe da 600.000 a 450.00 tonnellate di CO2 all’anno.
Il settore sta facendo progressi, ma con palesi contraddizioni. In una ricerca promossa da Capgemini, che ha interpellato 1000 organizzazioni, il quadro che emerge sottolinea che, nonostante circa la metà delle aziende dichiari di avere sviluppato un approccio operativo sostenibile, in realtà meno di una su cinque si è effettivamente dotata di una strategia di IT coerente per ridurre il proprio footprint ambientale.
Consapevoli della problematica, i principali provider di infrastrutture cloud e operatori di data center hanno creato il patto per la neutralità climatica dei data center.
Tra le 25 società che aderiscono ci sono anche i big del settore: Aruba, OVHcloud, AWS, Google, Equinix ed NTT, oltre a 17 associazioni. Le società coinvolte hanno concordato un’iniziativa per rendere i data center in Europa neutri dal punto di vista climatico entro il 2030.
Si tratta di un impegno senza precedenti, da parte delle industrie per ambire ad un internet più green e per consumare meno energia e transitare verso un’economia neutra dal punto di vista climatico.
Anche le istituzioni pubbliche si stanno muovendo da questo punto di vista, infatti la nuova denominazione di alcuni Ministeri per favorire un approccio interdisciplinare a questi temi, che riguardano il futuro, è senz’altro un segnale positivo: ambiente, mobilità sostenibile, infrastrutture, innovazione tecnologica, transizione ecologica e digitale, sono i settori dove la ricerca e la stretta relazione tra pubblico e privato hanno un ruolo fondamentale, con sensibili ricadute sull’economia nazionale nel suo complesso.
Tuttavia, gli investimenti previsti dal PNRR, da quelli più prettamente digitali (per esempio, la promozione della connettività a 1 gigabit per secondo in tutto il paese, la copertura 5G e la realizzazione di un’infrastruttura cloud nazionale sicura per la fruizione dei servizi pubblici digitale) a quelli per la sostenibilità ambientale, anch’essi fondati su un utilizzo delle nuove tecnologie, devono fare concretamente i conti con le ripercussioni in termini di emissioni di gas serra e cicli di smaltimento.
Se, come pare, il nostro orizzonte è fatto sempre più di smart city interconnesse e di processi aziendali fortemente digitalizzati, dovremo imparare a sviluppare una maggiore consapevolezza dell’impatto ambientale delle tecnologie che usiamo per vivere e lavorare.
Questa nuova sensibilità sarà, sempre di più, il fattore cruciale per differenziare chi guardando solo ai profitti, predilige orientarsi su orizzonti a breve termine e chi invece ragiona su prospettive a medio-lungo termine, pensando al business in un contesto di vita sostenibile.